Ieri è passato da me uno dei primi ragazzi accolti nell’Istituto, per portarmi la notizia d’essere diventato papà. Era felice e voleva comunicarla a me, tra i primi “perché, diceva, Lei mi ha fatto da padre”.
Ciò mi ha tuffato nel mondo dei ricordi, rievocando episodi che sono sedimentati nella mia memoria e che riemergono di quando in quando, in speciali circostanze, come quella di ieri.
Quel 3 dicembre
Era una giornata fredda e nebbiosa del dicembre del 1886 e avevo da poco celebrato la Santa Messa nell’antica e sontuosa Chiesa di San Cristo, dove abitava poveramente tra i chierici poveri il grande ispiratore e amico, monsignor Pietro Capretti.
Quel giorno era il primo venerdì del mese, oltre che essere la memoria di San Francesco Saverio.
Serviva mamma Filippa Freggia, la quale aveva a disposizione solo quattro scodelle.
Mentre io me ne stavo in piedi senza nulla in mano, quasi ad osservare se tutto procedeva bene, un ragazzo mi disse: “E Lei, Padre non mangia?”
Da quel giorno anche gli altri ragazzi mi chiamarono con quel nome e poco a poco divenni per tutti Padre. E così verranno chiamati i sacerdoti che condividono con me la vita per e con i giovani.
Il titolo di Padre l’ho sempre considerato una responsabilità lieta e importante, che comportava l’impegno a diventare davvero padre per i miei ragazzi.
Il difficile “Pater noster”
Mi sono accorto quanto sia difficile alcune volte recitare il “Padre nostro”, la bella preghiera del Signore, da parte di alcuni ragazzi, i quali hanno un’esperienza negativa del padre, che magari ritorna a casa la sera ubriaco e butta per aria tutto quello che trova, picchia la madre, impreca e bestemmia, dopo aver sprecato in giro quel poco che aveva guadagnato e che sarebbe servito per mettere qualche cosa sotto i denti ai figli affamati.
Bisognava che io, ai loro occhi, ricostruissi in me l’immagine del papà buono e provvidente, che sa sacrificarsi per i suoi figli, che pensa a loro con amore non solo di parole, ma con i fatti, in modo che potessero rivolgersi a Dio col nome di Padre buono.
Quando mi chiamano “padre”, mi sento investito anche di un’altra responsabilità: quella di non legare questo nome a quello di un Dio gendarme, tiranno, esigente, nemico della gioia, che non esiste se non per complicare la vita dei suoi figli, ma che quando ci chiede qualche cosa è perché vuol farci crescere come figli che collaborano con Lui a costruire la nostra felicità eterna.
Un Padre di molti fratelli
Mi sento Padre anche quando insegno ai miei ragazzi a volersi bene, a rispettarsi, a non coltivare invidie tra di loro, a non covare rancori e a superare i desideri di vendetta. Quando soprattutto li invito ad aiutarsi, non solo nel fare birichinate o nel copiare i compiti, ma nel sostenersi nelle difficoltà e nel bene. Questo mi impegna a trattare tutti con equità, senza dimostrare di avere preferenze o simpatie particolari.
Sono così chiamato a ripresentare la missione di Gesù. che consiste nel farci accettare il fatto che Dio sia Padre, che tutto quello che Dio fa e dice è perché ci considera figli.
Mi sento quindi Padre tutte le volte che preferisco il bene dei miei ragazzi alla mia tranquillità e la loro crescita al mio benessere. Ma quanto è difficile quando la testa è piena di preoccupazioni!
Quel 3 dicembre sono diventato Padre: Signore aiutami ad esserlo realmente giorno dopo giorno!
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