LA PRESENZA DELLA CONGREGAZIONE SACRA FAMIGLIA DI NAZARETH NEL MONDO

martedì 30 dicembre 2014

360 - XENIO TOSCANI - GLI STUDI STORICI SU PADRE PIAMARTA

La bibliografia su Giovanni Battista Piamarta e la sua opera inizia quando ancora egli è vivente: l'occasione è il XXV anniversario degli Artigianelli, celebrato nel 1913. Lo sviluppo dell'Opera era stato tale, da suscitare meravigliati, ammirati riconoscimenti e gratitudine. La festa del 25° era anche una affermazione del grande valore civile dell'opera di p. Piamarta, una rivendicazione di utilità sociale e umana di fronte a laicisti radicali di orientamento zanardelliano e a socialisti. Benché alle origini dell'Opera fosse molto viva la memoria dell'Istituto voluto a Brescia da Lodovico Pavoni, già si delineano chiaramente tuttavia due concetti: il primo è che l'Opera è cosa diversa da quella voluta da Pavoni e dalla attività dei Pavoniani, che pure stava rifiorendo a Brescia; il secondo che ci sono due fondatori, Capretti e Piamarta, benché poi Piamarta abbia dato all'Opera un impulso e un carattere tutto suo. In questo modo si esprime Emilio Bongiorni, vicario episcopale, che da giovane chierico era stato affiancato a Piamarta: «così alla fede del fu canonico Pietro Capretti e del Rev.mo Piamarta D. Giovanni dobbiamo l'Istituto degli Artigianelli [...]. Dei due fondatori uno era la matematica, la poesia l'altro [...]. Il primo era la forza centripeta, la centrifuga il secondo, forza di raccoglimento e forza di espansione». Nonostante l'Opera sia vista come il frutto di due fondatori, è ben chiara in Bongiorni la "concordia discors" del loro rapporto: la assennata attenzione di Capretti alle poche risorse economiche, e dunque la necessità di procedere lentamente con grande prudenza, a Piamarta non sembrava la scelta migliore. Egli propendeva per un illimitato abbandono alla Provvidenza, per un azzardo negli investimenti, e pensava più in grande. Bongiorni, più vicino a Piamarta, testimone dei faticosi, difficili inizi, vedeva giusto. L'anonimo autore di Pensiero ai Trapassati (S.D., forse da identificare con mons. Defendente Salvetti) è invece più propenso a parlare di due fondatori, anche se afferma, però, che lo sviluppo imponente dell'Opera si deve a Piamarta. «Centro grandioso di svariate manifatture, in cui lo sviluppo il progresso dell'arte e dell'industria andrebbero di pari passo collo sviluppo e il progresso di un istituto educativo che gareggia con i migliori d'Italia. La fiducia in Dio, la coscienza di far il bene, lo spirito diffusivo della carità cristiana fecero il miracolo». L'autore è però più consapevole (rispetto a Bongiornì) che a p. Piamarta non si deve solo l'incremento quantitativo sorprendente, ma una forte valenza educativa e formativa; la dimensione non solo assistenziale, ma anche "pedagogica" dell'Opera viene qui esplicitamente indicata come un autonomo, specifico valore. L’avvocato Mario Trabucchi, grande collaboratore di Piamarta, è altrettanto consapevole della forte valenza pedagogica, educativa, ma aggiunge a una esplicita connotazione civile, politica: i giovani operai, formati a Brescia e i contadini, formati nella Colonia Agricola di Remedello, oltre a una salda formazione tecnico-professionale, «portano anche l'esempio della religione, del costume, della rettitudine delle idee apertamente e coscientemente professate; la loro propaganda diviene un apostolato. [...] Così nelle officine e nei campi, ove più intenso preme il bisogno di lotta contro l’azione antisociale diffondentesi per negare Dio, per demolire ogni principio di autorità, per fare dell'uomo un bruto, s'allarga con l'apostolato intelligente della carità vittoriosa l'opera del p. Piamarta». Piamarta sarebbe dunque il vero fondatore della dimensione "industriale" dell'Opera, del suo grande valore educativo e della sua incontestabile valenza civile e "politica". Altri autori (come P. B., che traccia un breve profilo biografico di Piamarta) mentre, molto correttamente, illustrano la progressiva presa di coscienza da parte di Piamarta della insufficienza della pur benemerita istituzione dell'oratorio per i giovani del ceto popolare, non colgono la diversa visione che oppone Piamarta a Capretti, né la sostanziale novità rispetto all'opera dì Lodovico Pavoni: «l'intima e santa relazione che lo legava al compianto mons. Capretti, col quale aveva in comune i sentimenti e le aspirazioni per la educazione e la salvezza della gioventù, gli diede agio di maturare insieme con lui il grandioso progetto della fondazione dell'Istituto Artigianelli in sostituzione di quello del can. Lodovico Pavoni». Nei discorsi pronunciati nell'occasione del XXV anniversario ricorrono dunque sia la comprensibile, ma erronea, identificazione Pavoni-Piamarta, sia la consapevolezza del significato anche 'politico' dell'Opera. Mons. Gaggia, vescovo ausiliare, fu senza sfumature: «e quanto non dovette esultare lo spirito di quel santo uomo, che fu tra noi il Canonico Pavoni, al veder risorgere nelle nostre mura quella sua cara e provvida istituzione cristiana [...). Le preghiere del santo Canonico Pavoni, e dei suoi degni compagni in cielo, e quelle dei suoi figli in terra risuscitarono tra noi quell'opera, che sembrava tramontata». E per quanto attiene al significato 'politico' «i pericoli sono molti: la società è piena di sregolatezze e peccati. La famiglia è dissacrata. Le scuole sono scuole di irreligione, le officine luoghi di bestemmia e di irreligione. L'Istituto preserva da tutto ciò».

Don Giacomo Bonini, vicerettore della Colonia Agricola di Remedello, ha gli stessi accenti: «La Divina provvidenza, che sovrasta a tutte le opere di carità e di beneficenza, trovato acconcio terreno nella mente e nel cuore del non mai abbastanza compianto Mons. Capretti, gettò il primo germe della nuova istituzione. Capretti non tardò ad associarsi i primi due apostoli dell'educazione dei giovinetti nella persona di p. Piamarta e di p. Giovanni Turelli. [...] I frutti dell'Istituto sono molti e grandi: in un quarto di secolo più di 1500 giovani, e per di più scevri da quel marasma esiziale della cristiana società». Poco dopo le celebrazioni del XXV anniversario della fondazione dell'Istituto p. Piamarta muore. Il commosso ricordo, stampato per l'occasione delle esequie dalla Tipografia Queriniana, ricalca le stesse linee interpretative, mentre, con il respiro di un anno, uscirono due piccoli, importanti volumi ad opera il primo di un convertito dall'ateismo socialista e divenuto sacerdote, Illemo Camelli, il secondo di Elisa Baldo, figlia spirituale di p. Piamarta e fondatrice di una comunità religiosa che impropriamente, ma significativamente, fu considerata il "ramo femminile" della Congregazione Piamartina''. Illemo Camelli, sacerdote, già militante del socialismo più radicale, ateo e anticlericale, attentissimo ai bisogni e alle rivendicazioni operaie, convertito, trova nella vita e nell'opera di p. Piamarta la prova che l'uomo non è necessariamente condizionato dalle situazioni materiali; che le aspirazioni, le idealità e, tra queste, soprattutto la fede, sono grandi forze, impulsi creativi che trasformano le condizioni della vita e della società, che sottraggono l'uomo dal determinismo sociale. Piamarta nasce in una famiglia di poverissimi artigiani; l'avvenire suo doveva essere nell'umile bottega, ma chi ha in sé un germe fecondo, fatalmente si fa strada. La sua infanzia orfana e infelice lo avrebbe dovuto inacerbire contro la società, ma egli, che non poteva accasciarsi, superò le ore buie e tristi e non ne conservò che una grande attenzione e comprensione per i poveri, gli orfani, i giovani maltrattati dalla sorte. Poteva essere travolto dal facile turbine degli ambienti cattivi. Ma egli frequentò l'oratorio di San Tommaso, ebbe trasporto per il culto divino. Camelli si preoccupa di difendere Piamarta da un'opinione abbastanza diffusa, e che lo sarà anche decenni dopo, che egli cioè non avesse solida cultura o notevoli qualità intellettuali, fosse più un uomo della pietà e della carità e un organizzatore, che un teologo e un intellettuale: «parve che nella carriera degli studi dovesse essere mediocre [...], in realtà i santi hanno molta intelligenza. Ma non sanno adattarsi alle piccole idee e alle attenzioni minute. Nei santi l'attenzione è sempre rapita dall'idea che brilla in fondo all'intelletto e all'animo». Così fu per san Francesco, per il santo Curato d'Ars, che divenne un profondo scrutatore d'anime. In Piamarta non c'era solo capacità organizzativa, carità pratica. Camelli ne sottolinea le qualità di direttore d'anime, di confessore, di confortatore di malati e anziani, la penetrante attenzione ai bisogni della gioventù, la capacità di educatore negli oratori fondati a Carzago, a Bedizzole, a Pavone Mella nella stessa città, dove, peraltro, manifestò una acuta intelligenza delle trasformazioni sociali in corso. Aspetto non secondario era la capacità di dialogo anche con i non praticanti o non credenti, la sua distanza dalle posizioni dell’intransigentismo più radicale, pur nella aperta fedeltà al Papa. la capacità di limpida mediazione, per la quale il vescovo se ne servì in incarichi delicati.

Il nodo dei rapporti con Capretti è presentato con intelligente chiarezza: Piamarta misurò i pericoli grandi e cresciuti per i giovani, l’insufficienza degli oratori, che andavano bene per i giovani di famiglie borghesi, sostenuti dall’ambiente familiare e dalla scuola superiore, e avviati a buone occupazioni, ma non per i “figli del popolo”, destinati allo sfruttamento e ai lavori più duri o al degrado della mendicità e dei lavori saltuari, e concepì il disegno che era stato la inconscia aspirazione della sua anima. L’amicizia che lo univa a Capretti rese possibile gli inizi molto modesti dell’Istituto. lontani dal suo progetto, ma accettati come tentativo di inizio. Quando però il vescovo e Capretti pensarono di chiudere l’esperimento, spaventati dalla piega che questo avrebbe potuto prendere, egli si votò a un compito che ad altri era parso impossibile, fu capace di vivere dell’azzardo evangelico, non si affidò a logiche umane e creò dal nulla.

Camelli afferma dunque il carattere secondario del ruolo di Capretti, la autonoma novità del progetto di Piamarta, che si rivela con chiarezza nella decisione di fare da solo, di azzardare sperando “contra spem”. Ciò gli appare il frutto di qualità e atteggiamenti spirituali, cui per primo Camelli presta attenzione: la pratica di intensa, lunga orazione e adorazione, l’amore alla Bibbia e la frequentazione del testo sacro, una pietà cristocentrica robusta, una grande capacità di direzione di anime. Il volume della sua figlia spirituale Elisa Baldo, pubblicato nello stesso anno 1914, è tutto dedicato a esprimere quanto e come p. Piamarta educasse alla preghiera, alla meditazione su Cristo, alla umiltà e alla carità, al seguire prontamente le ispirazioni e i suggerimenti di Dio. La storiografia su p. Piamarta si apre in tal modo sulla sua spiritualità. Così tra il 1912 e il 1914 si ebbe una prima stagione di scritti, un primo nucleo storiografico, che, pur molto tributario dell’affetto per p. Piamarta direttamente, personalmente conosciuto e frequentato, e dunque ‘segnato’ da questo fatto, pone alcuni problemi (quali ad esempio il rapporto con l’opera di Pavoni) e stabilisce i primi dati di conoscenza. Dopo questi inizi occorre attendere più di 25 anni per avere una prima consistente prova di biografia a tutto campo con il volume di Icilio Felici, uscito nel 1939.


Edizione 1939
Celebrato il cinquantesimo anno dalla fondazione, a venticinque anni dalla morte del fondatore, la Congregazione volle un’opera che facesse conoscere a un pubblico largo, in tutta Italia, la figura di p. Piamarta. Icilio Felici ebbe a disposizione non solo l’archivio, ma le testimonianze dirette, orali, dei religiosi, dei fratelli collaboratori laici, e degli allievi che poterono conoscere il fondatore, e che furono alunni dell’Istituto tra 1886 e 1913. Volo tra le fiamme è la prima ampia biografia di p. Piamarta, percorsa dall’ammirazione e dalla devozione, nondimeno utile, ricca di informazioni dettagliate e di intelligenti delineazioni di persone, ambienti, situazioni. Chiarisce ad esempio la struttura, il funzionamento, il pubblico degli oratori che a Carzago, a Bedizzole e infine a Brescia (dal 1870) Piamarta aveva organizzato, e spiega anche per quale ragione alla fine egli li trovasse “insufficienti al bisogno”.
L’ oratorio che Felici descrive era un organismo educativo complesso, con pratiche di pietà giornaliere, con istruzioni catechistiche e bibliche (la “Storia sacra”), rappresentazioni teatrali (di filodrammatica dell’oratorio), esecuzioni musicali; aveva a disposizione una piccola biblioteca di testi e giornali religiosi, storici, politici; organizzava passeggiate. Accoglieva ragazzi e giovani di ogni ceto, ma era evidentemente più fruibile (e fruito) dai figli delle famiglie della borghesia media e piccola, e meno dai ragazzi dei ceti più umili e popolari, scolarizzati solo a livello elementare, poco familiari con le letture, che avevano molto presto necessità di lavorare. Questo ceto di giovani era a Brescia in forte aumento, dato il rapido sviluppo dell’industria nella città e la notevole immigrazione di chi dalle campagne cercava lavoro. Da ciò il bisogno di una iniziativa di altra natura, in grado di offrire a molti giovani viventi in Brescia, permanentemente, i benefici e gli ausili che l’oratorio, nella forma sopra descritta, e che fu la prima ad essere realizzata, non poteva offrire se non a una parte della gioventù, e anche a questa con dei limiti.

Con questo Felici spiega il contrasto di Piamarta con Capretti, contrasto che dopo un breve periodo di difficile collaborazione si risolve con la decisione di Piamarta di fare da solo: è la vera nascita dell’Istituto, con disegno, ampiezza e programma nuovi. Molte pagine sono poi dedicate ai difficili inizi e ai rapidi sviluppi dell'Istituto Artigianelli, narrate con significativi dettagli e delineando un quadro dei sostenitori dell’opera, benefattori e donatori. Felici delinea così l’ampiezza e la geografia sociale di un “consenso", che cresce rapidamente nell'ambiente bresciano. Non manca la preziosa segnalazione di collaboratrici donne, che si mettevano a disposizione per umili ma necessari lavori donneschi, e che con devozione silenziosa aiutavano in modo sostanziale.

Da queste, e da altre, nascerà e si svilupperà il “ ramo femminile“, la Congregazione delle Umili Serve del Signore, fortemente ispirato, voluto e orientato da Piamarta. Felici, che scrive nel 1938-39, è attento alle posizioni “politiche” di Piamarta: descrive (per la prima volta) la passione patriottica, garibaldina, di alcuni parenti e dello stesso Piamarta, spettatore fanciullo delle giornate del 1848 e poi, diciottenne, del 1859. La passione patriottica non lo abbandona neppure quando, nel 1870, Roma viene conquistata e si aggrava con ulteriore asprezza il conflitto tra casa Savoia e il Papa, già aperto con l’occupazione di province pontificie tra 1859 e 1866. Felici presenta Piamarta come sacerdote di aperta fedeltà al Papa, ma insieme come alieno da ogni durezza degli intransigenti, vicino alle posizioni transigenti e conciliatoriste di Bonomelli, già suo insegnante in seminario. Nelle pagine di Felici scorre una aperta apologia della Conciliazione (firmata meno di dieci anni prima, nel 1929): «non si lasciò fuorviare da correnti liberaloidi, né indulse a teorie di transigenze inopinate. Marciò all'ombra del vessillo col Papa e per il Papa sempre. Amico di Bonomelli, che era un conciliatorista (oggi si potrebbe dire un precursore) ma fu sempre attaccato e fedele alla cattedra di Pietro. Anche Piamarta col tempo si indusse a riconoscere, per la questione romana, che “cosa fatta capo ha” e auspicò che il doloroso dissidio fra Chiesa e Stato si componesse, e che intanto i cattolici dovessero partecipare alla vita politica, e ciò per l’esperienza di direttore di coscienze, che gli fece sperimentare che la tranquillità delle coscienze era in pericolo, e gli fece riconoscere che rimanendo assenti non c’è da sperare altro che di aver torto». L'amore per la patria (in quegli anni esaltato in molti modi dal Regime fascista) è presentato da Felici come vivissimo in Piamarta, ma sempre con significativo legame con la fede, e una coperta vena di critica alle componenti anticlericali non assenti nel Regime, critica leggibile tra le righe nella aperta metafora del liberalismo e del massonismo di età giolittiana: «l’amore per la Patria non era in lui scindibile dalla fede [...].


Amava la Patria, e soffriva che essa per insipienza di governanti e per la malvagità di sette che la manipolavano, scendesse giù per una china...». Con sottile consenso agli umori “ruralistici” del Regime, Felici presenta altri aspetti del pensiero e dell’opera di Piamarta, in particolare l’impegno per la Colonia Agricola di Remedello: «In epoca in cui molti incoraggiavano sconsideratamente l’inurbamento, Piamarta temette l’abbandono dei campi. Ma per evitarlo bisognava far capire che la terra paludosa si poteva rendere fertile, che la malaria poteva esser vinta, che l’agricoltura rendeva denaro, che ci si poteva affezionare alla terra. La terra mal coltivata e gli agricoltori sfruttati erano un pericolo religioso e sociale: immoralità e irreligiosità dilaganti tra chi si inurbava, e diventava preda del socialismo». Spiccano tuttavia, nel libro di Felici, molte cose nuove che non erano state esposte prima da altri, e in particolare il suo amore per la Bibbia, la sua efficace predicazione popolare con la “storia sacra” e le vite dei santi.

Edizione 1951
Camelli aveva fatto cenno all’attività di Piamarta come direttore di anime; Felici vi dedica non poche pagine per illustrare la chiarezza, fermezza e bontà della sua direzione spirituale, nonché la delicatezza, limpidezza, e l’assoluto disinteresse con cui era praticata, e contro la malignità di chi diceva Piamarta cacciatore di testamenti presenta inoppugnabili testimonianze. La spiritualità di Piamarta (nelle pagine di Felici) si sostanzia di meditazione di classici della pietà, ma in primo luogo della Bibbia, di san Paolo, e di lunghe ore di adorazione e meditazione contemplativa. Dopo la preghiera, l’azione, il lavoro, la febbrile attività, tutto però come strumento e via per la formazione delle coscienze: col lavoro i giovani imparavano l’etica del lavoro, il senso sociale e cristiano della disciplina, la dignità della persona.

Nelle pagine di Felici Piamarta appare anche come uno tra i primi valorizzatori della donna nell’apostolato di educazione al lavoro: «cominciava a forgiare nella donna devota la donna di azione»; «comprese che si aprivano tempi nuovi per la donna». Infine, Felici dà rilievo al “consenso” ecclesiale e sociale, che permise a Piamarta di sviluppare il suo progetto: tra chi lo aiutò enumera figure di professionisti illustri (tra questi il dottor Angelo Muzzarelli, l’avvocato Mario Trabucchi, Giuseppe Tovini), di ecclesiastici influenti (Lorenzo Pintozzi, Giovanni Marcoli, Giacinto Gaggia) e importanti figure femminili di grande pietà e di cospicua fortuna (le sorelle Girelli), o impegnate nel giornalismo (Marietta Bianchini). In considerazione di tutto ciò, Felici azzarda un parallelo con don Bosco, sostenuto da non pochi benefattori; anche per quanto riguarda le collaborazioni femminili, alla madre di Don Bosco egli accosta la figura di Filippa Freggia, prima umile collaboratrice di Piamarta, e ricorda poi Elisa Baldo e il gruppo di religiose da lei promosso.

Dopo il lavoro di Felici occorre attendere un ventennio per assistere a una ripresa di studi su padre Piamarta. Se si esclude infatti il lavoro di Guido Astori dedicato in sostanza a monsignor Bonomelli, di cui vengono edite lettere a vari corrispondenti, tra i quali padre Piamarta, è nel 1961 che compaiono i lavori di Pietro Serioli e di Pier Giordano Cabra, dedicati però non tanto al padre fondatore, quanto allo sviluppo successivo della sua opera; lavori preziosi, che documentano la diffusione e il radicamento delle opere e degli uomini che vi si dedicano, la efficacia spirituale e sociale del carisma piamartino, ma che sulla figura del fondatore non offrono sostanziali novità e grandi approfondimenti di ricerca, quali invece offre, un decennio dopo, il lavoro, imponente e impegnativo, di Luigi Fossati. 


Edizione 1963

L’opera, preceduta nel 1963 da un breve profilo, promessa di altro lavoro, e da un accattivante volumetto di Giovanni Barra, destinato a un pubblico giovanile, rappresenta la prima parte di una ricerca che in dodici anni darà alla luce altri tre volumi e che ben illustra lo sforzo della Congregazione di offrire una biografia esaustiva di padre Piamarta, proclamato servo di Dio. Fossati studia con grande cura e approfondita ricerca di fonti la famiglia, l'infanzia e la fanciullezza, l’adolescenza di Giovanni Piamarta. Mette in luce così sia la provenienza della famiglia, che immigra a Brescia dalla regione del lago d'Orta (secondo un tradizionale flusso migratorio che portava artigiani delle vallate alpine nelle città della pianura e del Pedemonte), sia le concrete condizioni di vita: famiglia di artigiani, inserita in un rione molto popolare e povero (presso San Faustino), numerosa e povera, toccata da numerosi lutti, favoriti dalle cattive condizioni abitative e di nutrizione: Giovanni Piamarta aveva altri quattro fratelli e sorelle, tre dei quali morirono bambini. Anche la madre morì lasciando orfano Giovanni all’età di nove anni.
Fossati si diffonde sull’infanzia, sull’adolescenza di Piamarta, mettendo in luce, per la prima volta, la grande povertà della famiglia, la debole figura del padre, che si occupava poco dei due figli rimastigli, ma anche la robusta personalità cristiana del nonno materno, tornitore, che narrava quotidianamente la storia sacra ai nipoti, e le opportunità di educazione cristiana offerte anche a ragazzi poveri e un poco sbandati dalle strutture pastorali delle parrocchie bresciane, e in particolare di quella di San Faustino.

Piamarta frequentò precocemente e assiduamente l’oratorio di San Tommaso, e ne fu educato, come pure partecipò alle passioni antiaustriache e patriottiche delle giornate del ’48 e poi del 1859 e della
liberazione della Lombardia. Due tratti profondi e incancellabili della sua personalità furono sia la capacità di valorizzare la “storia sacra”, come strumento di catechesi, sia il saldo sentire patriottico, che in lui convisse con una forte fedeltà alla Chiesa negli anni “caldi” della questione romana, ma che lo rese accetto e rispettato anche ai laici, fautori dell’unità nazionale e della conquista del Lazio e di Roma (frequentava la famiglia dell’onorevole Zanardelli, come direttore spirituale delle sue sorelle, ed era stimato anche dall’ala radicale del liberalismo bresciano). 

Vol I e II

È Fossati a mettere in luce le condizioni particolari dei primi anni di studio ginnasiale (privato, presso don Pezzana) e poi di seminario di padre Piamarta: seminarista “esterno”, non residente, e seguito per la formazione spirituale da apposito sacerdote presso la chiesa di San Domenico. Piamarta frequenta il seminario solo dal secondo anno di teologia, e sulle prime con risultati non particolarmente brillanti, che Fossati dimostra motivati dagli inizi non regolari del percorso scolastico. Uno dei meriti di Fossati è di aver dettagliatamente ricostruito i primi anni di attività pastorale-sacerdotale di padre Piamarta, prima a Carzago, poi a Bedizzole, infine in città, alla parrocchia di Sant’Alessandro. In tutte e tre le parrocchie egli istituì oratori, fedele alla sua personale esperienza, ma la sua attività non si limitò a questo. Fossati illumina i molteplici aspetti dell’attività sacerdotale di Piamarta: confessore e direttore di anime, predicatore, catechista, promotore di devozioni e di associazioni di fedeli. La sua cura per la preghiera, per la contemplazione, che motiva poi l’azione, ha la sua origine e radice ben prima che
egli fondasse l’Istituto Artigianelli, e la sua attività con i giovani dell’oratorio non fu un Iimite per la cura delle altre dimensioni dell’attività pastorale parrocchiale.

Merito di Fossati e anche di aver delineato la storia della costituzione della rete di oratori parrocchiali, vanto della pastorale bresciana dell'Ottocento, ma insieme di averne delineato i limiti, proprio quelli che indussero Piamarta, pure attivo e geniale promotore di oratori, a istituire un'opera nuova, l'Istituto Artigianelli, come sua risposta a un bisogno sociale e religioso che non trovava risposta ‘adeguata negli oratori. 

Vol III

 Questi infatti, scrive Fossati, offrivano un‘educazione alla preghiera, alcuni stimoli culturali (avevano una loro biblioteca), attività teatrali e ludiche (gite), momenti musicali. Rispondevano cioè al bisogno di socialità e di attività di giovani di famiglie borghesi, scolarizzati, educati e seguiti nell’ambiente familiare, istruiti in scuole superiori (tecniche o licei); non rispondevano abbastanza ai bisogni di molti ragazzi dei ceti popolari, poco scolarizzati e presto avviati al lavoro, alle prese con realtà e rapporti umani caratterizzati da durezza, da sopraffazioni, da difficoltà non piccole, da condizioni morali e spirituali degradate o poco buone. Per questi era necessario altro: apprendere un lavoro, avere una specializzazione professionale, un'istruzione civile e religiosa adeguata, la difesa di una dignità che spesso veniva calpestata. La comprensione di tutto ciò mette
padre Piamarta in progressivo dissenso con monsignor Capretti, col quale aveva avviato un'esperienza di aiuto ad alcuni ragazzi poveri e abbandonati, secondo il non dimenticato esempio del bresciano Lodovico Pavoni. Il dissenso tra i due, progressivamente crescente, segna anche la sempre più chiara distanza tra l’istituto di Lodovico Pavoni e l'Istituto Artigianelli. Fossati ha il merito di aver chiarito definitivamente i limiti della collaborazione di Capretti, la linea e il progetto sempre più chiaro di padre Piamarta, dal quale emerge la peculiarità e il carattere di istituzione nuova. Fondazione, non continuazione. 


Vol IV
Nei tre volumi che seguono il primo Fossati illustra lo sviluppo dell’opera di Piamarta, i diversi aspetti della sua personalità, le sue capacità pedagogiche, il suo radicamento
nella preghiera e nella contemplazione, nonché l'iniziativa della Colonia Agricola di Remedello, in collaborazione con padre Bonsignori. Pagine importanti sono dedicate alla sua
quotidiana e intensa frequentazione della Bibbia, alla spiritualità, alla familiarità e predilezione per i santi della riforma cattolica, che in epoca di crisi della Chiesa seppero agire con efficacia contro i mali del tempo, alla sua opera per la diffusione di una stampa cattolica insieme popolare e dottrinalmente rigorosa, alla sua attività di direttore di anime.
Se per molti aspetti l’opera di Fossati è ancora oggi molto preziosa, più caduche possono essere le pagine dedicate ai grandi quadri storiografici sull’economia bresciana del secolo XIX, su aspetti della vita e della pastorale diocesana, su alcune figure del laicato e del Movimento cattolico di fine Ottocento, che sono fondate sulla produzione storiografica degli anni ’50 e dei primi anni ’60, e risentono dei limiti di questa. Altrettanto si può dire delle sue pagine sulla situazione psico-sociologica della gioventù al tempo di padre Piamarta (volume II, capitolo VI ). Un sostanziale superamento di tali limiti si ha alla fine degli anni ’80 con due convegni “speculari”, non a caso dedicati alle due personalità di Giovanni Piamarta e di Pietro Capretti, a lungo collaboratori, e che la prima storiografia aveva unito considerandoli “confondatori”, o addirittura subordinando Piamarta a Capretti. 

Edizione 1987
Il primo convegno si tenne nel 1987 e fu dedicato a Giovanni Piamarta e il suo tempo (1841-1913); gli atti furono subito pubblicati a cura di Franco Molinari, autore nel 1986 di un agile volume divulgativo, destinato a un pubblico giovanile.

Il convegno offrì relazioni che approfondirono non tanto aspetti della vita e delle opere di Piamarta (già oggetto di dettagliata presentazione da parte di Fossati e di Felici) quanto il contesto nazionale in cui egli operò, e cioè la società civile e la società religiosa tra Otto e Novecento in Italia, con la singolare, particolare figura di lui, cattolico rigorosamente fedele al Papa, ma insieme aperto sostenitore dell‘unità nazionale e dell’epopea risorgimentale. Angelo Robbiati analizzò l’orientamento dei cattolici italiani di fronte al problema dell’istruzione professionale nell’arco di tempo 1861-1914, campo nel quale l’opera di Piamarta appare avanzata, in un panorama di scarsa sensibilità delle istituzioni civili e dei governi, e nella povertà di idee e di proposte in merito che veniva dalla società civile. Lo storico della pedagogia e delle istituzioni educative Luciano Caimi presentò Piamarta e la rilevanza pedagogica della sua opera nel quadro degli aspetti e problemi della pedagogia cattolica italiana nel secondo Ottocento, mentre Gian Lodovico Masetti Zanini inquadrò la Colonia Agricola di Remedello nella cultura agraria del tempo e Franco Molinari la spiritualità di Piamarta nel contesto delle correnti spirituali e di devozione allora diffuse nel Paese. Con tale convegno la figura e l’opera di padre Piamarta vengono tolte da un orizzonte storiografico “locale”, nel quale fino ad allora erano state sostanzialmente inscritte e studiate, per collocarle nella più ampia, più adeguata, più significativa scena nazionale e fruendo nel contempo di tutti gli sviluppi della storiografia degli anni ’60-80, relativa tanto al Movimento cattolico, quanto alle dinamiche economiche, educative, politiche nazionali. Non mancarono, e giustamente, relazioni attente al quadro diocesano, ma tutte ben consapevoli dell’orizzonte nazionale e con esso confrontantesi. Così è, ad esempio, l’intervento di Abramo Levi sull’anticlericalismo a Brescia al tempo di Piamarta, che non poté non misurarsi con la stampa anticlericale nazionale del tempo e con gli studi di Candeloro, Spadolini, Scoppola, Miccoli.


Edizione 1990
Nel 1990 fu celebrato il convegno Monsignor Pietro Capretti e il suo tempo. A cento anni dalla morte. Dopo una abbondante messe di studi, specialmente degli anni ’70, viene così ulteriormente illuminata una delle più importanti figure del clero bresciano, animatore di molte iniziative del Movimento cattolico diocesano, punto di riferimento di persone quali Giuseppe Tovini, Giorgio Montini, Luigi Bazoli, Giovanni Marcoli, ispiratore, consigliere, collaboratore di Giovanni Piamarta, che con lui diede vita alle iniziative di assistenza e educazione al lavoro dei giovani, tanto da essere da alcuni, come si è detto, considerato cofondatore degli Artigianelli.

La sua personalità viene collocata con cura nel panorama complessivo del Movimento cattolico bresciano da Mario Taccolini, che si avvale di una messe di studi ricca e matura; Angelo Majo ne considera l’attività di giornalista e di promotore della stampa cattolica diocesana nel contesto del giornalismo cattolico lombardo; Antonio Fappani e Giuliana Leali" ne studiano i rapporti col clero bresciano, e in particolare con figure quali Bonomelli e Carminati. Ma è nello studio di Giandomenico Mucci che vengono messi a tema i rapporti tra Piamarta e il gesuita padre Curci, all’influenza del quale viene attribuito il passaggio di Piamarta dalle posizioni integraliste dei primi anni di ministero a posizioni «almeno copertamente conciliatoriste», «a una interpretazione più morbida del Non expedit secondo la formula “preparazione nella astensione” condivisa da Giorgio Montini e Luigi Bazoli». Secondo Mucci «non va dimenticato quel fenomeno che si potrebbe dire la conciliazione silenziosa tra Chiesa e Stato», «mentre al ivello di vertice si combatte la contrapposizione frontale [...], nella periferia si svolgono normali contatti tra parroci e sindaci, tra vescovi e prefetti», e il caso di padre Piamarta ben rappresenterebbe questa “conciliazione silenziosa” e di fatto, per i rapporti che ebbe con molti, anche laici e non credenti, per i contatti con autorità civili di ogni livello, rese necessarie dallo sviluppo della sua opera e dal rilievo sociale e materiale di essa.

Dal carteggio Piamarta-Curci, che Mucci analizza, «emergono con chiarezza tre punti, che interessano sul piano umano [...], Curci e Piamarta nutrivano l’uno per l’altro stima e amicizia profonde; collaborarono dal punto di vista editoriale, tanto che Piamarta si era offerto nel 1886 di assumere la diffusione commerciale dei libri del Curci, erano legati molto fortemente dai vincoli della fede e della preghiera». Piamarta, assiduo lettore della Bibbia, era ammiratore delle lezioni esegetiche e morali sopra i quattro Vangeli del Curci e di altri scritti del gesuita, tanto che, a parere di Mucci, sembrò condividere l’opinione che l’antitesi tra la fede cattolica e il liberalismo, teoricamente irriducibile, fosse destinata a comporsi nello sviluppo degli eventi storici, e tanto da condividere con enfasi le ragioni dell’opera di Curci, così da indurre molti a porsi la domanda se Piamarta condividesse non solo il conciliatorismo, ma anche il riformismo di Curci, e ciò nonostante che Piamarta avesse venerazione per il ben più dotto Capretti, che invece era apertamente contrario alle posizioni di Curci.

Il problema resta aperto anche perché sono note le lettere di Curci a Piamarta, ma risultano irreperibili quelle di Piamarta a Curci. Mucci sembra tuttavia concludere che Piamarta fosse interessato molto più agli studi biblici e alla sacra oratoria di Curci che alla problematica ecclesiologica del gesuita napoletano. Gli anni ’9O vedono la pubblicazione di due studi molto importanti, e cioè l’edizione delle Lettere di padre Piamarta e dei suoi corrispondenti, con una fondamentale introduzione di Nicola Raponi, e la biografia scritta da Pier Giordano Cabra, Piamarta. A questi sul finire del decennio si aggiunse il volume La Colonia Agricola di Remedello Sopra. Studi per il centenario che, oltre a vari contributi su padre Bonsignori e sull’esperienza della Colonia Agricola, offre il contributo di Cabra il metodo educativo di padre Piamarta e di padre Bonsignori, il più significativo studio pubblicato sulla pedagogia piamartina.


Edizione 1994
Con le Lettere di padre Giovanni Piamarta e dei suoi corrispondenti la storiografia piamartina tocca forse il punto più alto, e non solo perché per la prima volta si pubblicano fonti di prim’ordine per conoscere la personalità del fondatore degli Artigianelli (che si pubblicano con utili note) ma perché la presentazione di Raponi (40 dense pagine) ne mette in luce tutta la ricchezza e l’importanza per la storia religiosa e civile non solo di Brescia, ma del Paese, sulla scorta delle linee storiografiche più recenti, feconde e illuminanti circa «i problemi della società, le idee, le correnti culturali e religiose del tempo». Ad una prima lettura di tali lettere potrebbe sembrare che il mondo di Piamarta sia circoscritto ad un ambito provinciale, agli ambienti della Chiesa della società bresciana. Sono lettere ai giovani dell’oratorio di Sant’Alessandro, lettere che documentano l’amicizia con i leaders del Movimento cattolico bresciano e l’orientamento ancora fortemente intransigente di Piamarta, che polemizza contro i «figli delle tenebre». Più avanti il carteggio documenta il definirsi nel Movimento cattolico bresciano di due posizioni, quella più intransigente e quella di indirizzo più aperto. Emerge poi la vitalità della Chiesa bresciana, il fiorire di nuovi istituti religiosi, lo sviluppo delle istituzioni educative, della stampa, dell’associazionismo, la crescita dell’economia, la vivacità della società civile. Le lettere attestano poi l’importanza del progetto “Istituto Artigianelli nato da un’acuta intuizione e da un’attenta lettura delle realtà del tempo, da un’attenzione non timorosa ma realistica all’avanzare della modernità. In esse si percepiscono i problemi della società italiana, la transizione dalla civiltà contadina a quella industriale, la piaga dell’analfabetismo, il pauperismo, i conflitti sociali, gli scioperi, lo sfruttamento del lavoro giovanile, la carenza di una formazione professionale. Le lettere fanno percepire l’originalità dell’opera di padre Piamarta, sono fonte preziosa per una storia (che solo di recente è entrata nell’orizzonte degli studi storici) della sociabilità religiosa, del concreto contributo delle nuove Congregazioni religiose allo sviluppo della società italiana.

Qui Nicola Raponi, acuto pioniere di tali nuove piste di ricerca, illustra l’originalità e la specificità dell’Istituto della Sacra Famiglia di Nazareth, che gli appare come una fondazione di seconda e più avanzata fase creativa: «se la prima generazione (di istituti religiosi di fondazione ottocentesca), quella dei pionieri, è rappresentata dagli istituti della Canossa, della Capitanio, del Farina, del Cafasso, del Cottolengo, la seconda generazione va, possiamo dire, da don Bosco alla Cabrini, a don Guanella, a don Orione e fra questi possiamo ben collocare padre Piamarta, con la sua istituzione. Sono gli istituti a più evidente caratterizzazione sociale».

Brescia fu, come è noto, dai primi decenni dell’Ottocento una fucina di nuove fondazioni religiose: Lodovico Pavoni, Maria Crocifissa Di Rosa, Gertrude Comensoli, Annunciata Cocchetti, Bartolomea Capitanio; Piamarta le conosceva, ma si caratterizza per una spiritualità «più avvertita delle esigenze di una presenza culturale del cattolicesimo nel mondo moderno e per una visione aperta dei problemi del mondo del lavoro e della necessità di una formazione professionale dei giovani». Partendo da ciò, Raponi precisa acutamente ciò che distingue Piamarta da Pavoni: la sua Volontà di dare ai giovani una preparazione professionale specialistica e la fondazione di una congregazione che promuovesse una figura nuova di religioso lavoratore, che sceglie come regola di vita e come via alla perfezione evangelica il lavoro manuale.
Il carteggio documenta largamente origini e sviluppi dell'Istituto, che diede all’industria bresciana molti lavoratori specializzati, e si diffuse talmente che «quasi tutte le maestranze dell’industria bresciana provennero dall’Istituto Piamarta. Che cosa abbia significato questo fatto nel modello di lavoro, nella realtà economica e produttiva della città e del territorio, nello stile di vita [...] nel modo stesso di intendere e praticare i valori religiosi è facile intuire osservando la storia bresciana di questo secolo».

Presenza efficace e singolare che non va attribuita solo alla preparazione tecnica, ma anche e forse soprattutto alla formazione morale e religiosa: vi sta dietro una filosofia del lavoro come valorizzazione delle attitudini, come strumento di educazione e di crescita della personalità, inseparabile da un’educazione morale e civile (e ciò non vale solo per la formazione al lavoro industriale, ma anche per il lavoro agricolo). L’epistolario è del più grande interesse per cogliere i problemi sociali del tempo, ma anche per conoscere l’atteggiamento della cultura cattolica e del clero verso la concezione, la teologia, del lavoro non più visto solo come condanna e fatica espiatrice del peccato originale, ma come occasione per una valorizzazione delle capacità creative dell’uomo.

Il carteggio conserva anche un notevole gruppo di lettere di padre Curci, il noto gesuita, promotore della rivista Civiltà cattolica, ma che per le sue convinzioni conciliatoriste ebbe notevoli problemi disciplinari, e lasciò la Compagnia di Gesù. Padre Curci era anche uno studioso della Sacra Scrittura, un commentatore apprezzato e un oratore efficace, e questi aspetti furono forse i più significativi per Piamarta, che di Curci apprezzò gli scritti di commento ai libri della Bibbia e la predicazione, forse molto più degli atteggiamenti conciliatoristi e degli scritti sul “socialismo cristiano, per i quali comunque mostrava apprezzamento. Le lettere di padre Curci a padre Piamarta sono indicative del desiderio di questi di «inserire nel catalogo della tipografia del nascente Istituto opere di teologia biblica», e ciò «proprio negli anni in cui la questione biblica e il dibattito sui problemi filologici, esegetici, teologici relativi al testo sacro era ormai vivissimo anche in campo cattolico». L’epistolario apre dunque una finestra sugli interessi culturali e religiosi di Piamarta, e sulla libertà di spirito con cui egli, peraltro fedelissimo alla Chiesa e al suo magistero, non temeva di ricorrere a un autore «che non era certo visto con tenerezza dagli ambienti romani e dal campo intransigente».

La tipografia degli Artigianelli, la Queriniana, ebbe una sua linea di pubblicazioni di opere di alto livello, non popolari, ma rivolte a un pubblico colto, con autori come Curci, Le Camus, Bonomelli, e l’epistolario ne dà conto. Piamarta era attento agli sviluppi della cultura teologica, in dialogo con monsignor Capretti, Gaggia, Marcoli, Bonomelli. Con quest’ultimo ebbe rapporti di grande stima e collaborazione, anche editoriale, testimoniata dallo scambio di lettere, studiate ed edite nel 1943 da Guido Astori. Qui si trovano espressioni di attenzione al mondo moderno, di rifiuto dei “profeti di sventura”, di stima per la democrazia come forma di relazioni politiche del futuro, in palese e grande distacco dalle posizioni più “intransigenti”, e si trovano anche lettere di più minuta cronaca politico-religiosa. In piena stagione modernista non potevano mancare nella corrispondenza Piamarta-Bonomelli riferimenti alle vivaci battaglie di quegli anni, così fu per il caso Fogazzaro, e così per le sofferenze vissute dal cardinale Ferrari. Dunque una “spia” preziosa dei problemi e della sensibilità dell’ambiente, non meno che di padre Piamarta.

Ultimo, ma non minore per importanza, il fatto che l’epistolario è un documento della grande e feconda direzione spirituale esercitata da Piamarta su allievi, amici, anime che si abbandonavano ai suoi consigli. Prevalgono le lettere a religiosi e a religiose (tra le quali spicca Elisa Baldo), che consentono di cogliere come altrimenti non sarebbe possibile l’orientamento e la qualità della spiritualità di padre Piamarta, che rivela una viva dimensione contemplativa e insieme una serena e penetrante valutazione delle condizioni storiche della società. La pubblicazione del carteggio consentirebbe così di collocare padre Piamarta nel cuore di quella “terra di frontiera” col moderno, con la trasformazione industriale, con lo sviluppo economico, «che fu Brescia in quel periodo, e così di essere in certo senso un modello di un possibile rapporto Chiesa-società, Chiesa-industria, Chiesa-mondo operaio». La storiografia italiana degli anni ’90 presenta una frequenza crescente di studi su fondatori di Congregazioni religiose con attività sociali (Guanella, Bosco, Orione, Piamarta e altri). Colpisce infatti una coincidenza temporale: le leggi eversive sembrano avere un ruolo ambivalente: da una parte esprimono un momento autoritario e illiberale, dall’altra sembrano suscitare una straordinaria rifondazione del radicamento religioso nel profondo della società. Ciò sembra avvenire soprattutto nell’alta Italia, l’area più avanzata economicamente, più industriale, dove accanto a una ispirazione modernizzatrice liberale si fa luce una versione cristiana della fiducia nella creatività e nel progresso.

Le nuove Congregazioni che sorgono e operano obbligano a ripensare schemi politico-ideologici, dal momento che non si collocano agevolmente nel binomio transigenti-intransigenti, ma sul binomio autorità-profezia o tradizione-riformismo, e sono attestate sulla frontiera del rapporto con la modernità (industrializzazione, dinamiche sociali e di classe). Brescia è terra significativa di questi fenomeni, e padre Piamarta si situa in questo contesto. Con la pubblicazione del carteggio (1994) e del convegno Giovanni Piamarta e il suo tempo (1987) la storiografia sul fondatore degli Artigianelli (come la contemporanea produzione su altre figure di fondatori), esce definitivamente da un’ottica e da modalità ancora in parte più o meno grande agiografiche, per collocarsi a pieno titolo e dignità nella storia culturale, religiosa, civile ed economica del Paese, come studio di fattori di grande importanza nella formazione del capitale umano che ha reso possibile lo sviluppo del Paese. Gli storici dell’economia indagano ora con crescente attenzione la formazione culturale dei ceti popolari (specie nel Nord Italia e in particolare nel Veneto e in Lombardia), che poté contare su una educazione di base impartita capillarmente da una miriade di istituzioni formative e associative. Si trattò perlopiù di iniziative privatistiche, nella maggior parte di matrice cattolica, che diedero vita ad istituti per la prima infanzia, scuole elementari e professionali, collegi per giovani, associazioni di carattere religioso e devozionale e in seguito anche di carattere economico, mutualistico e culturale. L’insieme di questi fenomeni, generalmente studiati dagli storici come problemi a se’ stanti, costituisce un complesso di forze, di fermenti attivi nel territorio, il cui accumulo può essere studiato come insieme di quei “fattori immateriali” che hanno svolto un ruolo essenziale nella formazione del capitale umano e sociale della regione, cioè tutto ciò che viene investito nei singoli individui, principalmente sotto forma di istruzione, addestramento ed esperienza. Questa “svolta storiografica” è alla base del più recente contributo sull’Istituto Artigianelli e sulla Colonia Agricola di Remedello Sopra, il volume di Andrea Salini Educare al lavoro. Questo libro studia le opere create da Padre Piamarta come “un soggetto economico” che educa i giovani alle virtù civili e ne fa attivi operatori sociali.

Salini si sofferma sulla peculiarità del soggetto Congregazione Sacra Famiglia di Nazareth, esaminandone le risorse, i criteri di gestione e di amministrazione. Ragiona sulla Congregazione in termini di sistema. Esamina le istituzioni giuridico-economiche adottate per la costituzione del patrimonio, le fonti di sostentamento dell'attività, la tipologia di impiego delle risorse e la questione amministrativa. Per fare fronte ai provvedimenti soppressivi dello Stato padre Piamarta utilizzò l’istituto giuridico della interposta persona, l’associazione tontinaria e la costituzione di società anonime o per azioni. Ebbe bisogno di ingenti mezzi finanziari, ottenuti da donazioni di benefattori, e mediante utili non distribuiti, e debiti verso fornitori o verso le banche. Le attività, seppure di carattere formativo e religioso, erano infatti strutturate nei modi tipici delle aziende commerciali, con necessità di reperire finanziamenti, con fonti interne o esterne, e di investire secondo criteri di sana e oculata gestione del patrimonio e per un incremento quantitativo e qualitativo delle attività esistenti. E poi il ciclo di produzione e di commercializzazione richiedeva requisiti e capacità organizzative e gestionali. Il fatto che le officine non avessero come scopo finale principale il lucro ma la educazione e la formazione non esclude che dovessero organizzarsi secondo corretti principi economici e gestionali miranti a un andamento economico e finanziario attivo, con doti professionali e senso di responsabilità permanente rientranti tra le finalità formative e educative dell’istituzione. Formano così il capitale sociale, insieme condiviso di valori, di modelli di comportamento, di norme morali, di legami relazionali e di relazione di fiducia che caratterizzano un sistema di agenti economici tali da favorire i processi dello sviluppo economico e sociale. È vero che il carattere primariamente socio-educativo della Colonia non escludeva l’obiettivo economico cosicchè la Congregazione gestì la Colonia secondo principi economici e finanziari propri di una moderna azienda agraria, e a ciò educò i propri allievi.

La Colonia di Remedello fu un grande strumento di sviluppo agrario e insieme un progetto di recupero del mondo agricolo e della civiltà contadina. La congregazione piamartina mette in atto un sistema aziendale che porta a compiere scelte di natura imprenditoriale pienamente coerenti con le trasformazioni del processo di industrializzazione. A Remedello si operò una piena saldatura tra agricoltura e industria di trasformazione dei prodotti della terra. Si favorì la costituzione di una latteria sociale e di una fabbrica di conserve secondo una dimensione solidaristica cattolica, un modello di cattolicesimo sociale leoniano, dialettica tra etica ed economia. La congregazione aveva un progetto di “societas civilis” che educava alla intraprendenza e alla creatività. Manifesto nei fatti la convinzione nella bontà dell’impresa, vista nel suo ruolo di motore dello sviluppo economico, con il primato del momento produttivo rispetto a quello distributivo. Preoccupazione fondamentale per Piamarta era la salvezza delle anime; questa si otteneva con la formazione e la educazione, che passava anche attraverso il lavoro. Se dovessimo cercare una sua “cultura del lavoro”, questa avrebbe i suoi caposaldi nel primato dell’uomo sul lavoro, del lavoro soggettivo su quello oggettivo, del lavoro sul capitale, della coscienza sulla tecnica, della solidarietà sugli interessi individualistici e di gruppo.

In Piamarta non vi fu il timore della modernità, ma il senso della modernità, rivelando una visione cristiana della società diffusa in gran parte degli ambienti cattolici lombardi. Il compito di incontrare la modernità sul terreno sociale e civile venne svolto dalle nuove Congregazioni religiose, come in primo luogo quella di padre Piamarta, che furono in grado di dilatare la carità e la filantropia sociale grazie a nuove formule organizzative. La possibilità di disporre sia del fattore capitale sia del fattore lavoro ad un costo decisamente inferiore rispetto alle altre aziende economiche-commerciali permette all’azienda Artigianelli e a quella Colonia Agricola di posizionarsi in modo competitivo. I cospicui lasciti e il lavoro gratuito dei membri della congregazione mostrano che la logica del profitto è secondaria rispetto a un senso dell’universalità del dovere verso l’umanità. Le attività piamartine erano strutturate nei modi tipici delle aziende commerciali, con la necessità di reperire fonti di finanziamento esterne e interne, ma anche con l’obiettivo di investire secondo criteri di sana e oculata gestione. Occorreva anche capacità organizzativa e gestionale. 
Gli scopi principali non erano l’utile ma l’educazione morale religiosa, però ciò non significa che non si dovesse operare con sani criteri economici e insegnarli, e insieme insegnare responsabilità e intraprendenza. Il modello richiamato è quello dell'impresa sociale, cioè un'impresa che sebbene strutturata in forme commerciali, essendo dotata di capitali e producendo reddito è vincolata alla non distribuzione e al reinvestimento degli utili. Il principio fondante non è la massimizzazione del profitto, ma il principio di reciprocità. Non sembra fuori luogo attribuire a Piamarta qualità e attitudini proprie della figura imprenditoriale, per la sua capacità di porsi in modo costruttivo tra etica e mercato. Si voleva stabilire all’interno dell’azienda un senso di comunità e di rispetto della dignità delle persone, stabilire una cultura del rispetto delle regole, della disciplina, della motivazione del lavoro di squadra che favorisce la crescita morale e intellettuale dell’uomo e il senso di un grande appagamento.


Edizione 1997
Ma è con l’opera di Pier Giordano Cabra, Piamarta, comparsa in prima edizione nel 1997, ma ristampata poi più volte, che è opportuno concludere questa rassegna storiografica. In veste piana, senza note (ma con aggiornata e completa bibliografia in calce) il volume si presenta come un’agile, leggibile opera per lettori non specialisti. In realtà, in forma accattivante viene offerta una puntuale biografia, che fa tesoro, e supera, quelle scritte precedentemente. È un notevole passo avanti, sia nel racconto della vita e dell’attività, del contesto civile ed ecclesiale, sia soprattutto nella presentazione della spiritualità del fondatore. Come Fossati, espone il contesto familiare e le origini popolane del fondatore, ma dà più rilievo al radicamento nella Brescia popolare degli anni ‘40-50, alla ostilità verso gli austriaci, all’esperienza delle 10 giornate del 1849 e poi alla guerra del 1859, alla indignazione dei bresciani, all’amore per la libertà, al patriottismo di una intera città. Piamarta sente vivamente la patria, lo stato, il forte impegno popolare. Trattando della vocazione al sacerdozio di padre Piamarta l’autore ne illumina meglio gli studi ginnasiali e liceali, e liceali, condotti come “esternista” e con difficoltà materiali, e dà rilievo alle divisioni e ai contrasti che si riscontravano tra i professori del seminario, divisi tra diverse correnti teologiche e spirituali, e soprattutto tra clero “liberale” e “intransigente”. Gli anni di seminario di Piamarta furono difficili per queste tensioni, per le ispezioni governative, e indussero in lui una tenace avversione agli scontri in materia politica. Si sa poco sui suoi direttori spirituali, ma si sa bene che egli fu colpito dalla personalità di monsignor Bonomelli, suo professore in seminario, e poi vescovo di Cremona, con cui fu sempre in rapporto anche epistolare.

Ordinato sacerdote e destinato alla cura d’anime prima a Carzago, poi a Bedizzole, e infine a Brescia, Cabra ne precisa le linee di attività, sottolineando in particolare l’impegno nella catechesi, nel confessionale, nella direzione spirituale e parallelamente nella cura della gioventù. Pagine illuminanti sono scritte sulla presa di coscienza da parte di Piamarta della insufficienza degli oratori per i giovani dei ceti popolari, nel contesto dello sviluppo industriale di Brescia. Troppe cose sfuggivano alla pastorale corrente e consueta; occorrevano vie nuove. Lo sviluppo industriale di Brescia, l’immigrazione di giovani dalle campagne in città, il formarsi di un proletariato operaio, la condizione di giovani senza qualificazione e senza assistenza sono qui meglio descritte che non nell'opera di Fossati. Queste cose angustiano Piamarta, che peraltro e parallelamente osserva il sorgere nei suoi giovani più dotati di un dissidio tra società civile e Chiesa. Il tentativo di far fronte a tutto questo in collaborazione con monsignor Capretti è insoddisfacente, come lo è l’esperienza di parroco a Pavone Mella (nella quale peraltro egli investì con successo le sue energie): il problema giovanile lo inquieta fino a determinare la scelta di dedicarsi ai suoi giovani.

L’autore, pur descrivendo le molte difficoltà degli inizi dell'Istituto Artigianelli e l’impetuoso sviluppo dell'opera, non tace altre “dimensioni” della personalità di Piamarta, molto meno studiate da altri biografi, e tra queste il grande interesse per la Bibbia e per il maturare di una “questione biblica”, che portano Piamarta a corrispondere con padre Curci e illuminano la sua sensibilità a una problematica che sarà “esplosiva” negli anni del modernismo. Dopo aver illustrato adeguatamente la novità dell’Istituto Artigianelli, scuola pratico professionale per figli del popolo, artigiani e operai istruiti e formati cristianamente, Cabra presenta e motiva il carisma specifico della famiglia religiosa nata da Piamarta, religiosi fratelli, che vivono sempre con i ragazzi, maestri di lavoro, ma anche di vita cristiana: apostoli del lavoro cristiano.

La seconda parte del volume, dedicata alla fisionomia spirituale di padre Piamarta è anche la più nuova e puntuale nel delineare in lui non solo un benefattore, ma anche un santo. Il suo è un progetto di risanamento della società attraverso l’educazione di operai cristiani, un progetto che affronta le sfide della tecnica, dell’industria, delle macchine, viste come fattori irreversibili, ma che possono e debbono essere vissuti cristianamente. Egli ha fiducia nell’educazione, nell’istruzione professionale e tecnica che possono accompagnarsi a dignità e bellezza del lavoro. Poiché però anche le virtù umane hanno bisogno di una motivazione, quella religiosa è la più coerente e solida, fondata sulla Parola, i sacramenti, la preghiera. Non poche pagine, e pagine nuove, sono dedicate ai “modelli” cui si ispirò Piamarta (i santi della riforma cattolica) e alla quotidiana frequentazione della Bibbia, nonché alle sue devozioni: la Vergine Maria e il Sacro Cuore. Un capitolo è dedicato alla mistica del servizio, un altro alle caratteristiche della sua umanità: le virtù della gratitudine, il coraggio e la fiducia nella Provvidenza la personalità decisa e schiva insieme. Conclude il volume un capitolo specifico sulla Congregazione da lui fondata e sul carisma di questa. Pubblicato in occasione della beatificazione di Piamarta il volume, pur se redatto in forma agile e piana e per far conoscere il beato al grande pubblico, non è una semplice lettura edificante, ma una biografia precisa, che valorizza il meglio degli studi precedenti e che scrive pagine puntuali di marcata originalità.

sabato 27 dicembre 2014

359 - QUEI DUE QUADRI

 

















Quale dei due quadri è il migliore? Le opinioni sono diverse, anche se non apertamente espresse. Tutti dicono bene di entrambi, ma le preferenze vengono fuori in privato, quasi nel timore di offendere il personaggio raffigurato e tanto amato, oltre che andare contro chi la pensa diversamente. Eppure le preferenze vengono da lontano.
I due quadri raffigurano Padre Piamarta e sono stati offerti entrambi con legittimo orgoglio dagli Ex alunni degli Artigianelli, il primo in occasione della Beatificazione e il secondo della Canonizzazione, rispettivamente negli anni 1997 e nel 2012. Entrambi hanno avuto l’onore di essere esposti sulla facciata della basilica di San Pietro nelle due emozionanti e indimenticabili cerimonie.

Il primo quadro è più ruspante, nel senso che rappresenta il Padre circondato dai suoi ragazzi, dai capelli arruffati, un Piamarta ancora in azione, ancora terreno, con il volto appena trasfigurato. La composizione era stata oggetto di dibattito e di intensa consultazione tra i committenti e il pittore bresciano che in gioventù aveva già dipinto il volto di Padre Piamarta ma ancor più per la ferrea determinazione dell’autorevolissimo Padre Mantovani, nel volere raffigurata la Santa Famiglia. Da qui il “tour de force” del pittore, che si trovò in difficoltà a raffigurare la mano di Padre Piamarta che indicava ai ragazzi distratti l’immagine di San Giuseppe al lavoro, circondato da Maria e Gesù. 


Il secondo è più raffinato. Padre PIamarta è un “Reverendissimoo Padre”, che dalle eleganti fattezze, appare già in Paradiso, con sullo sfondo i luoghi della sua attività terrena: Brescia con il suo duomo, accanto a sobri accenni di tranquille attività. L’autore del resto è specializzato in ritratti di santi nella gloria, secondo canoni più universali e romani.

Si potrebbe dire che il primo richiamava il Piamarta raccontato dai testimoni, il secondo Il Piamarta trasformato dall’ammirazione e dalla devozione.

Il primo è quello della fatica di un pater familias che deve pensare a sfamare i suoi figli e dell’educatore che li spinge faticosamente a guardare in alto, il secondo è quello che ha raggiunto il premio, il santo del trionfo finale. Il primo è un fante, che combatte in trincea, il secondo un generale che gusta la vittoria. E’ inutile dire che il primo gode delle preferenze della vecchia guardia degli ex alunni, che l’hanno sentito raccontare in tanti piccoli episodi e che hanno costantemente sperimentato vicino nelle loro fatiche e difficoltà, mentre il secondo è più gradito alle nuove generazioni, che sono cresciute con la presentazione di un Piamarta già in cielo.

Sembra che il “beato” dica che bisogna lavorare ancora molto per essere “santo”, mentre il “santo” manifesta la sua soddisfazione d’essere arrivato, presentando la sua disponibilità ad intercedere. Il primo appare come un compagno di viaggio che sostiene nelle fatiche quotidiane, il secondo è un amico altolocato da invocare, dal quale ci si attende delle grazie. Il primo è un esempio di fortezza, il secondo una promessa di protezione.

Le vicende personali di chi si mette davanti ai due quadri e le diverse sensibilità e le storie dei due dipinti possono orientare le preferenze più verso l’uno che verso l’altro. Ma l'uno sarebbe incompleto senza l’altro. Come si fa a resistere nel compito non sempre gratificante di educatore, senza guardare la meta? E come si può raggiungere la meta senza la “fatica, lunga, assidua, operosa, intelligente” di ogni giorno?

Ognuno ha le sue opzioni estetiche e la sua sensibilità spirituale. Ma è indubbio che le due raffigurazioni formano un dittico che illustra la globalità della vita cristiana, nei suoi due momenti inseparabili di prova e di premio, di dare e di ricevere, di oscura fatica e di premio luminoso.


 padre Pier Giordano Cabra 

358 - UN GRANDE AMICO

42. Dal “Diario” di Padre Piamarta di Pier Giordano Cabra

Nel nostro refettorio ho fatto mettere un grande ritratto di monsignor Pietro Capretti, la persona a cui l’Istituto deve di più. Quando ero curato qui in città nella parrocchia di Sant’Alessandro e cominciavo a pensare seriamente a fare qualche cosa per i giovani senza prospettive per il domani, pensai bene di parlarne con lui, perché mi sembrava la persona più sensibile a questo tipo di problemi. Quasi ogni giorno salivo a San Cristo, il vecchio convento dove monsignore abitava, dopo averlo adibito a seminario per i chierici poveri, da lui accuditi e formati. Quel vecchio monastero era divenuto il centro dinamico della Brescia cattolica che si apriva ai nuovi tempi. Una fucina di idee, di proposte. Ma soprattutto un esempio contagioso di dedizione, quale premessa a realizzazioni che esigevano impegno personale prolungato.

La gemma del clero bresciano

Era uomo di notevole cultura, ma anche di grande carità. Di lui si può dire che “da ricco che era si fece povero per arricchire con la sua povertà”. Viveva poveramente assieme ai suoi chierici poveri, che voleva ricchi di cultura e di amore illuminato per il prossimo. Formatore di sacerdoti, ma anche suscitatore di energie laicali impegnate nel sociale e nel politico, raccolse attorno a sé e sostenne personalità diverse quali Giuseppe Tovini e Giorgio Montini. Uomo di alta spiritualità e di fine dottrina, ha lottato, anche con il suo talento di giornalista, sui due fronti opposti: da una parte contro l’intransigentismo cattolico e dall’altra contro il partito del potente Zanardelli, che peraltro riconosceva la sua superiore nobiltà. Il Signore l’ha chiamato a sé a soli 48 anni, tutti laboriosissimi, nonostante la salute malferma.

Sempre amico

Godeva meritatamente di grande prestigio, che io condividevo totalmente, tanto che non ho mai osato dargli del Tu, sebbene avesse un anno meno di me. Con lui parlai a lungo del mio progetto ed egli subito l’abbraccio’ e mai lo abbandonò, anche quando ci furono momenti di disaccordo circa le modalità di realizzazione. Il Vescovo Emilio Bongiorni, che da chierico mi fu dato d’aiuto, proprio agli inizi, e che quindi conosceva bene le cose, così ha descritto la situazione, nel discorso tenuto in occasione del Venticinquesimo dell’Istituto. “Mons. Capretti tutto pesava, contava tutto. Con questi criteri aveva fondato l’ospizio dei chierici poveri e,dopo averlo retto per venti anni, poteva chiedersi: Perché mettersi per altra via?”. La sua era la via del passo dopo passo, della prudenza.

“Non così la pensava un altro uomo, il Reverendo Padre Piamarta, che aveva passato la vita intera in mezzo ai giovani. Egli, che nella cura d’anime aveva incontrati a centinaia i fanciulli bisognosi e che da anni vagheggiava un’opera bella, grande, ordinata, come quella del Canonico Pavoni di venerata .memoria, innanzi al nuovo istituto, due casupole, scuoteva mestamente il capo”... Monsignor Capretti, che si era riservata la parte amministrativa, non poteva pensare diversamente le cose, anche perché in quel momento era in difficoltà economiche. Ma le diverse visioni sul come realizzare l’opera, non intaccarono la nostra amicizia, che rimase ben salda. Tanto è vero che quando poco dopo venne a morire (1890), nelle sue volontà testamentarie fu trovata la disposizione che circa la metà dei suoi beni erano destinati all’Istituto.

Un esempio di vita

Quante cose mi insegnò Monsignore! A conclusione di una lettera, a proposito delle nostre divergenze, scriveva: “Preghiamo entrambi che in tutto questo non entri lo zampino dell’amor proprio; zampino di cui io non posso certo negare la tentazione per conto mio. Il Signore allora aiuterà e farà finir bene ogni cosa”. Questa è l’umiltà di una vera guida spirituale . Un grande amico davvero santo ed esemplare!

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